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Lidia, il pianto delle madri

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Lidia, il pianto delle madri

«Questo è un incubo, il mondo ci è crollato addosso, mio figlio non può essere quel mostro».

Maria Botti, 74 anni, la madre di Stefano Binda in carcere da venerdì 15 gennaio per l’omicidio 29 anni fa di Lidia Macchi, dal momento dell’arresto non ha più voluto vedere nessuno e si è sfogata solo con i parenti più stretti.

Anche la sorella di Stefano, Patrizia, 50 anni, un paio più di lui, ha scambiato solo qualche sms con le amiche più care.

«Questa è una tegola che ci ha colpito in pieno...», ha scritto a una conoscente che abita poco distante. Martedì 19 gennaio, intanto, nel carcere varesino dei Miogni l’uomo sarà interrogato dal gip.

Binda è stato prelevato venerdì mattina dalla vecchia villa di famiglia, dove vive con la madre al primo piano (al secondo abita la sorella con la famiglia). Attorno ci sono molte altre cascine ristrutturate dove abitano parenti e amici che si sono stretti attorno ai Binda e continuano a ripetere che Stefano non può aver fatto nulla.

Chi ricorda invece d’aver ospitato Binda a casa sua è Paola Bettoni Macchi, la mamma di Lidia, a colloquio con un collega del Corriere della Sera.

«Binda venne insieme a Giuseppe Sotgiu. Erano legatissimi, i due, e in particolare l’allora diacono era in ottimi rapporti con mia figlia. Binda rimase per cena. Gli preparai una torta di mele. Com’era? Quel ragazzo era gentile ed educato, ecco com’era. Era addolorato e disperato per quanto appena successo. Non ho più rivisto Binda dopo quella sera».

«Finalmente abbiamo scoperto la verità? Non so se quest’uomo è il responsabile o l’unico responsabile. Credo, ma potrei sbagliarmi, che le indagini non siano terminate. Questo non toglie il mio ringraziamento alla dottoressa Manfredda, tenace e ostinata; e ugualmente ho la convinzione che la mia Lidia mi abbia aiutato, in tutti questi anni, a trovare dopo un’infinita attesa le persone giuste, investigatori e avvocati».

La lettera attribuita a Binda?

«Mio marito corse a portarla in Questura. È evidente che non venne presa in considerazione. Avrebbero potuto tentare già all’epoca perizie grafologiche. Anche se uno dei misteri maggiori riguarda il Dna: l’avrebbero potuto utilizzare al meglio, per compiere verifiche più approfondite».

E, in un’intervista a QN, Paola Macchi sottolinea: «Ci sentivamo dire che stavano lavorando, ma non succedeva niente. Sono stati trent’anni sprecati. Se avessero indagato subito su quella lettera, invece che tenerla nel cassetto, sarebbe stato tutto diverso».

Come sono stati questi anni?

«Vivere per tanto tempo con l’angoscia è stata dura. Mi dicevo sempre: salterà fuori quando lo deciderà Lidia. È arrivato il momento. Quando ho detto a mio marito che l’avevano preso, lui è rimasto senza parole. Non sono una che cede alle lacrime, ma stavolta mi sono chiusa in camera con Giorgio e sono scoppiata a piangere».

Un pianto liberatorio per un dolore infinito cominciato 29 anni fa e analizzato anche da Giancarlo Magalli la mattina di lunedì 18 gennaio, quando ospite della trasmissione di Rai 2, I Fatti Vostri, è stato Gianni Spartà, caporedattore in pensione della Prealpina e autore di un libro sull’omicidio di Lidia Macchi. Spartà ha citato la prima pubblicazione della lettera sulla Prealpina nel maggio del 1988 e riproposta nei mesi scorsi, risultando decisiva per questo nuovo filone d’indagine. In collegamento con lo studio romano ha parlato anche il legale dei Macchi, l’avvocato Daniele Pizzi, il quale ha ribadito che non v’è dubbio che quella lettera fu scritta da Binda alla famiglia di Lidia quattro giorni dopo il delitto.

Ampi servizi sulla Prealpina di martedì 19 gennaio.


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