I genitori di Lidia hanno voluto vivere, non sopravvivere. Lontano dalla cultura del sospetto. Lontano dal morbo colpevolista. Oggi che hanno visto in faccia il presunto assassino della loro figlia, le cose cambiano.
E così mamma Paola, a nome del marito Giorgio, da tempo malato, e i figli Stefania e Alberto che l’hanno accompagnata in questa lunga battaglia, affidano al loro avvocato un messaggio importante.
«Ci sono persone che sanno di più di quanto abbiano detto finora», dice il legale dei Macchi, Daniele Pizzi. «Non sostengo che vi siano individui che hanno coperto il presunto colpevole, ma che di questa vicenda sanno e non possono non sapere nulla». Pizzi fa proprio un appello: «Chi sa, chi ricorda anche solo un particolare, chi ha avuto anche solo un sospetto e ha taciuto, si faccia avanti. Questo è il momento. Mi contatti, contatti la Procura generale di Milano, si faccia avanti con gli inquirenti. Non credo sia possibile, dopo 29 anni, vivere anche solo con il dubbio di poter essere utili alle indagini sulla morte di Lidia, e non farlo o avere timore di farlo».
Ricorda, Pizzi, che «davanti al dolore della famiglia di Lidia e del rispetto che si deve a questa ragazza, chi è a conoscenza di qualcosa di utile», e non parla, l’avvocato, di una persona ma di più persone, ha il dovere morale «di non tacere più», qualunque sia stato il motivo per cui ha taciuto quasi per trent’anni».
Come dire, basta con l’omertà che ha circondato questa vicenda, perché in sostanza di parole non dette che hanno cambiato il corso della storia di molte persone e delle indagini, si tratta.
Parole non dette che hanno portato lontano dalla verità gli inquirenti in passato e che ora potrebbero contribuire a dare una svolta decisiva. Ora che il “cold case” è stato riaperto, che il sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda ha chiesto la custodia cautelare in carcere di Stefano Binda, ritenendolo autore della lettera anonima recapitata ai Macchi il 10 gennaio dell’87, giorno dei funerali di Lidia, e quindi indicandolo come assassino, le cose cambiano. Ora più che mai «chi sa deve parlare, il tempo è scaduto».
«La famiglia di Lidia auspica che vi sia una confessione spontanea che eviti altri strazi alla famiglia».
Confessione che al momento sembra alquanto improbabile. Stefano Binda, 48 anni, arrestato a Brebbia venerdì 15 gennaio perché ritenuto dagli inquirenti il killer della giovane che il mese successivo a quel maledetto gennaio dell’87 avrebbe compiuto 21 anni, ha infatti detto «sono innocente». Ha detto di essere «tranquillo» e di non c’entrare nulla col delitto di Lidia.
L’ipotesi della riesumazione della salma, infatti, non è così remota. Anzi. L’istanza di riesumazione è già stata presentata. E non è un fatto recente. E’ stata presentata alla Procura generale di Milano molto tempo prima dell’arresto di Binda, e resa pubblica lo scorso settembre.
«Ora che c’è un presunto colpevole, lo strazio della riesumazione è qualcosa, almeno una cosa, che alla famiglia potrebbe essere risparmiata, di fronte a una confessione spontanea».
Sulla riesumazione deciderà la Procura generale di Milano.
E sullo stato nel quale si potranno trovare i poveri resti della giovane e sull’ipotesi che si possano svolgere indagini alla ricerca del Dna del killer (dopo la sconsiderata distruzione dei reperti) abbiamo interpellato il medico legale che all’epoca della tragedia lavorò molto al caso, il professor Mario Tavani, che tra l’altro trascorse otto ore sul luogo del ritrovamento del cadavere, al Sass Pinì, nell’area boschiva frequentata dai tossicodipendenti non lontano dall’ospedale di Cittiglio, dove Lidia fu trovata morta.
«Preferisco non esprimermi sulla vicenda», dice il professor Tavani, per molti anni a capo della Medicina legale di Varese, «poiché sul caso sono stato perito per conto del Tribunale di Varese».
Ampi servizi sulla Prealpina di martedì 19 gennaio.