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Channel: La Prealpina - Quotidiano storico di Varese, Altomilanese e Vco.
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Il giallo dei reperti spariti

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Il giallo dei reperti spariti

Della questione della scomparsa di numerosi reperti legati al caso dell’omicidio di Lidia Macchi (5 gennaio 1987) La Prealpina ha parlato più volte, da quando il fascicolo fu tolto alla Procura di Varese dalla Procura Generale di Milano (novembre 2013). Ma la mancanza in particolare dei vetrini con il liquido seminale dell’assassino ritrovato sul corpo della vittima, di cui fu ordinata la distruzione nel 2000 dall’allora gip Ottavio D’Agostino, in questi giorni fa naturalmente molto discutere, perché la comparazione di quel Dna con quello di Stefano Binda, in carcere per l’assassinio della studentessa di vent’anni, avrebbe garantito certezze che oggi, invece, non ci sono. E a rammaricarsene è naturalmente la pubblica accusa, ma non solo: anche Binda, se davvero è innocente come dice, avrebbe avuto tutto da guadagnare, in caso di esito negativo, da una comparazione del Dna dell’assassino ritrovato sul corpo di Lidia con il suo.

Ma di quali reperti si parla esattamente? Per quanto riguarda quelli distrutti dal gip nel 2000, si tratta di undici vetrini contenenti strisce di liquido seminale prelevato dal cadavere di Lidia Macchi; un paio di vetrini con applicati frammenti dei pantaloni della vittima; tutti gli indumenti indossati dalla ragazza la sera dell’omicidio; nonché tutti gli altri reperti biologici ritrovati sul corpo della studentessa.

Nel novembre 2014, intervistato dalla Prealpina, D’Agostino aveva spiegato che la sua ordinanza non aveva nulla di illegittimo: «All’epoca la cancelleria mi segnalò che l’ufficio corpi di reato era "saturo" e che una soluzione al problema poteva essere l’eliminazione dei reperti conservati dal 1971 fino al 1987 - aveva spiegato - A quel punto fu preparato un elenco e io verificai che nessuno dei reperti fosse relativo a un fascicolo a carico di persone note. Dato che nessuno era stato iscritto nel fascicolo per il delitto Macchi, nonostante il coinvolgimento di un sacerdote nella vicenda, e quindi il procedimento era a carico di ignoti, ecco spiegato perché si procedette alla distruzione».

Di cui non si accorse nessuno e di cui nessuno si lamentò, come conferma Franco Mancini, presidente del Tribunale dal 1997 al 2004: «All’epoca non seppi nulla di tutto questo, fu una decisione autonoma del gip sulla quale nessuno, neppure in seguito, mi interpellò».

Le ricostruzioni giornalistiche di questi giorni si concentrano su quell’ordinanza del gip, ma va detto che il destino di altri reperti non è stato migliore e che in altri due casi, altrettanto clamorosi, si ignora anche chi siano stati i responsabili delle sparizioni.

Inutile interrogarsi infatti su che fine abbia fatto la borsetta di Lidia Macchi macchiata di sangue. Il reperto numero 317/91 -così fu registrato nel 1991 al momento del deposito in un apposito scatolone sigillato, con tanto di ceralacca, nelle stanze dell’ufficio corpi di reato del Tribunale di Varese- semplicemente non si trova più. Una scomparsa certificata un anno fa dall’attuale presidente del Tribunale Vito Piglionica con una lettera al pm di Milano Carmen Manfredda. In cui si leggeva, tra l’altro, che la scomparsa della «borsa comune con oggetti vari» di Lidia dall’Ufficio corpi di reato del Tribunale di Varese era già emersa nell’autunno del 2008 nel corso di un’ispezione ministeriale mirata. Quella borsetta rientrava nell’elenco degli oggetti «non rinvenuti alla ricognizione dei funzionari del Ministero della Giustizia». Un mancato rinvenimento, come precisato dagli ispettori arrivati da Roma, assolutamente «non giustificato».

E inutile interrogarsi anche su che fine abbia fatto il sedile della Fiat Panda con impresse le macchie di sangue di Lidia, avvistato l’ultima volta all’Istituto di Medicina Legale di Pavia, e poi sparito nel nulla. Come il resto.


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