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Channel: La Prealpina - Quotidiano storico di Varese, Altomilanese e Vco.
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In origine fu Piccolomo

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In origine fu Piccolomo

«Cos’è successo per riaprire un caso che per oltre un quarto di secolo la Procura di Varese non aveva mai archiviato, ma neppure risolto? Un imprevisto. È il 6 febbraio del 2013. Carmen Manfredda, procuratore generale presso la corte d’Appello di Milano, ha appena ottenuto la conferma dell’ergastolo per Giuseppe Piccolomo per l’omicidio di Carla Molinari. All’uscita, mentre si trova a conversare con il cronista della Prealpina Luca Testoni, è avvicinata da due signore sulla quarantina. Sono Nunziatina e Filomena Cinzia, figlie di Piccolomo. «È un mostro - le dicono -, ha ucciso anche nostra madre, se l’è cavata con l’omicidio colposo e la condanna a un anno e mezzo di carcere».

A scrivere la genesi dell’inchiesta di Lidia Macchi versione Carmen Manfredda è il direttore di “Tempi” Luigi Amicone in un lungo articolo (tuttora online sul sito della rivista vicina a Comunione Liberazione) pubblicato nel settembre del 2014. Precisato che, all’incontro tra le figlie del cosiddetto killer delle mani mozzate, era presente anche un altro giornalista della Prealpina, Paolo Grosso, per il resto è tutto vero. È andata proprio così.

E statene certi che se non fosse stato per quell’incontro casuale fuori dall’aula del Corte d’Assise d’Appello, quella dove fa capolino lo splendido mosaico di epoca fascista dell’artista Mario Sironi, e, soprattutto per il racconto senza filtri, al limite del pulp, della morte di Marisa Maldera da parte delle figlie («si liquefaceva nella fiamme come una candela», avrebbero raccontato Piccolomo non senza un certo gusto macabro…), non si sarebbe mai arrivati a questo punto. Assetate di giustizia com’erano (e sono) Nunzia e Cinzia Piccolomo, avendo evidentemente capito subito di aver trovato nella dottoressa Manfredda un interlocutore attento, ne approfittarono per raccontarle anche che quel padre violento le minacciava spesso e volentieri affermando che avrebbe fatto fare loro «la fine di Lidia Macchi» mimando loro il gesto del coltello. Avendo studiato approfonditamente il caso del delitto di Cocquio Trevisago e conosciuto in presa diretta Piccolomo, il sostituto pg si accomiatò dalle due donne assicurando che le loro parole non sarebbero cadute nel dimenticatoio. Parole di circostanza? Nemmeno per sogno. Perché tempo qualche settimana, convocò le due donne nel suo ufficio al terzo piano di Palazzo di Giustizia a Milano. Da quelle sommarie informazioni si è schiuso un mondo investigativo. La cui onda lunga è giunta i giorni nostri.

È vero, non tutto è andato sempre per il verso giusto. Affascinata dalla somiglianza del molestatore in azione nell’ospedale di Cittiglio, pochi giorni prima del delitto di Sass Pinì, con il look (tutto riccioli e baffoni) del Piccolomo dell’epoca, la donna magistrato di origini novaresi si è spinta a chiudere le indagini accusandolo del delitto di Lidia. Accusa poi congelata e ora destinata ad essere oggetto di un’archiviazione prossima ventura. Un passo falso, col senno di poi. L’ultimo di un’indagine che pareva destinata ad andare per sempre a vuoto. Al quale sembra però aver ampiamente rimediato seguendo le tracce della lettera anonima spedita ai genitori della povera Lidia che l’ha portata, venerdì scorso, all’arresto di Stefano Binda.


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