C’è un’immagine di Lidia Macchi che ritorna nel corso delle perquisizioni effettuate dagli uomini della Squadra Mobile di Varese nella casa di Stefano Binda, il 48enne di Brebbia finito in manette all’alba di quattro settimane fa su ordine del gip varesino Anna Giorgetti con l’accusa di avere violentato e ucciso la ventenne brillante studentessa di giurisprudenza di Casbeno.
È quella foto “acqua e sapone” della ragazza legata al mondo scout e quello di Comunione e Liberazione, che sorride, con indosso un maglione bianco di cotone grosso e intrecciato (molto in voga in quel periodo…), gli occhiali in testa, i capelli neri raccolti mentre qualche ciuffo spettinato le fa capolino attorno al viso. La prima volta, la foto in questione spunta in uno dei quattro diari-agenda datati 1987 e gelosamente conservati dall’amico del giro di Cl, conosciuto ai tempi del Liceo Cairoli di Varese.
Nella stessa Smemoranda dove Binda, allora diciannovenne, scrive «Sestriere» in corrispondenza dei primi tre giorni del gennaio di 29 anni fa e «pattinata» e «che botta!!!» in quella del 4 gennaio, compare, tra le pagine dell’8 gennaio (e dunque il giorno successivo al ritrovamento della salma della ragazza) e del 9, un ritaglio di giornale che ritrae proprio quello scatto di Lidia. Una foto che fa pendant, sull’altra pagina, sotto al simbolo di Cl, ad alcuni versi che, inseriti nell’ordinanza cautelare e letti alla luce dei recenti sviluppi investigativi, non possono che mettere i brividi: «Stefano, sei fregato/ potrebbero strapparti gli occhi/ o strapparteli con le tue mani/ ma quello che hai visto, lo hai visto tu/ e cosa ti separerà dal luogo in cui palpita quella Luce?..».
Per intenderci, la stessa mano che, firmandosi «anonimo di Brebbia», “verga” alla pagina del 22 gennaio del diario, prima, «Ciò che la notte amara ispirò fra i singhiozzi, mano pietosa all’alba (di speranza o promessa anche solo) distrugga» e, poco più in basso, «distrutto tutto. Giuro».
Sarà una coincidenza, ma la stessa immagine compare sul libretto blu di poesie di Lidia, pubblicato dalla Fondazione a lei dedicata a un anno dalla tragica scomparsa della primogenita della famiglia Macchi. Un libro la cui copia ingiallita è stato rinvenuta e sequestrata nella ricca e voluminosa libreria di casa Binda. Un sequestro che sorprende, ma fino a un certo punto. In fondo, i due si conoscevano e frequentavano lo stesso ambiente e lo stesso giro, anche se Stefano Binda ha spiegato nelle sommarie informazioni assunte il 13 febbraio del 1987 (qualche mese prima dell’immagine che lo ritrae ad una festa di matrimonio pubblicata nell’edizione odierna, ndr) di aver incontrato Lidia per l’ultima volta solo tre anni prima. Non è dato sapere se quelle poesie, che portano con sé «il germe dell’innocenza e della speranza», risultino intonse o vi siano sottolineature o commenti scritti. Di sicuro c’è che con quelle poesie in cui, per parafrasare la prefazione al testo di don Giulio Greco, già sacerdote della canonica di Varese, Lidia dimostrò «il suo gusto per provare la vita alla ricerca della propria strada».
Una ricerca interrotta sul più bello in quella fredda notte del 5 gennaio del 1987 nei boschi di Sass Pinì, in un misero ricettacolo di spaccio poco lontano dall’ospedale di Cittiglio.