«Siamo stati nella stessa stanza dalle 9 di mattina a poco prima di mezzanotte e mai Binda ha rivolto uno sguardo verso di me, non ho mai incrociato i suoi occhi, né tanto meno mi ha rivolto la parola».
E’ una donna forte, la mamma diLidia Macchi, ma una donna provata da tutto quello che è avvenuto e sta avvenendo in queste settimane, ventinove anni dopo la tragica morte della figlia. Paola Bettoni ha voluto esserci, durante l’incidente probatorio svoltosi lunedì 15 febbraio davanti al gip di Varese Anna Giorgetti, è stata per lunghe ore nella stessa stanza con l’uomo che per la Procura generale di Milano e il sostituto pg Carmen Manfredda, è l’assassino di Lidia.
Hanno sfilato i sei super testimoni dell’indagine sull’omicidio della giovane uccisa il 5 gennaio del 1987 e lei, la donna che da ventinove anni chiede la verità sulla morte della figlia, è voluta essere presente per tutto il giorno. Quindici ore, un viaggio nel tempo, nella vita di Lidia e in quei drammatici giorni che hanno cambiato per sempre la vita dei Macchi e consegnato alla storia il più grande cold case della storia criminale varesina e uno dei gialli più inquietanti di sempre del Paese.
«Non l’avevo mai più
rivisto», dice mamma Paola, riferendosi a Stefano Binda.
«Sono trascorsi ventinove anni e ogni anno è stato come una di quelle ventinove pugnalate che hanno portato via Lidia». Ripete quel numero, ventinove, e dice che «sono ventinove anni che soffriamo tutti e questo è l’anno della Misercordia - prosegue Paola Macchi -, speriamo di raggiungere la verità».
Provata, addolorata, la mamma di Lidia utilizza parole forti per descrivere il tempo passato e l’attesa di una soluzione del mistero. Parla di «tortura» e di «pugnalate», per descrivere quanto è stato vissuto dalla sua famiglia e forse anche per descrivere l’attesa della soluzione degli eventi accaduti nell’ultimo mese. Le prove da affrontare, però, non solo finite. C’è la questione, ancora aperta della riesumazione del corpo di Lidia, ipotesi che la signora Paola vuole considerare «l’ultima spiaggia», «speriamo di non arrivare mai a questo punto», ripete. Per tutto il giorno di lunedì, Paola Macchi ha avuto accanto l’avvocato Daniele Pizzi. «Ha insistito lei, per essere presente sempre, durante l’incidente probatorio», dice il legale. «Per la prima volta, tranne che per poche veloci questioni, Paola Macchi è entrata in tribunale per parlare della figlia, facendo un salto nel tempo, calandosi di nuovo nella vita di Lidia, dal punto di vista emotivo, un’esperienza davvero difficile per tutta la famiglia Macchi». Gli uomini e il dirigente della Squadra mobile di Varese, Silvia Carozzo, «sono stati presenti per tutto il giorno, fino a notte fonda e a tutti loro va il grazie della famiglia Macchi per il difficile e delicato lavoro che stanno svolgendo». Sul fronte delle ricerche del contenuto del sacchetto di carta lasciato da Binda al parco Mantegazza di Masnago, ricerche condotte dai genieri dell’Esercito, Pizzi commenta: «Abbiamo appreso anche noi lunedì 15 febbraio di questa ricerca e se è difficile pensare di trovare un coltellino dopo tanti anni in un parco frequentato da migliaia di persone, è con gratitudine che apprendiamo che non si lascia nulla di intentato per arrivare alla verità».