Sono considerati molto pericolosi e, per questo, sottoposti a uno speciale regime di sorveglianza, anche se la maggior parte di loro è ancora in attesa di giudizio.
Sono i detenuti islamici rinchiusi nelle prigioni italiane e accusati di terrorismo internazionale, il reato previsto dall’articolo 270 bis del codice penale.
Tra di loro c’è anche Abderrahmane Khachia, il ventiduenne marocchino residente a Brunello finito in manette lo scorso 28 aprile per l’operazione antiterrorismo condotta da Digos e Ros e coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Maurizio Romanelli e dai pm Enrico Pavone e Francesco Cajani.
Il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria hanno dato vita a un circuito carcerario ad hoc per questi terroristi (o presunti tali…) in grado di rispondere alle esigenze di sicurezza ritenute più adatte. Tra le strutture ritenute più idonee, c’è il carcere di Sassari, in Sardegna: guarda caso, proprio dove è stato trasferito l’aspirante jihadista fratello di Ossama Khachia, il “foreign fighter” morto in Iraq nel dicembre scorso.
Una curiosità: nella stessa struttura carceraria della città sarda si trova anche l’altro connazionale arrestato con l’accusa di terrorismo internazionale: Abderrahim Moutaharrik, l’operaio marocchino campione di kickboxing, di base a Lecco, che secondo gli inquirenti sarebbe stato pronto a immolarsi a Roma per la causa dell’Isis.
Nel frattempo, è questione di giorni il deposito delle motivazioni dell’ordinanza con la quale il Tribunale del Riesame di Milano ha respinto la richiesta di scarcerazione di Abderrahmane Khachia. Secondo il legale, l’avvocato Luca Bauccio, Khachia «è estraneo ai fatti» e «non ha mai fatto parte dell’Isis né ha mai pensato di andare a combattere in Siria».