Vivere cent’anni dovrebbe servire non solo per spegnere le candeline sulla torta. E poco importa se chi ci è arrivato lo ha fatto sulle proprie gambe o in carrozzina, con la testa dritta o reclinata. Vivere cent’anni dovrebbe servire più di tutto per testimoniare, con le carte d’identità su cui accanto alla data di emissione è scritto Regno d’Italia, con le immagini dei ricordi in bianco e nero e con i tanti sacrifici passati a cercare di sopravvivere tra le guerre mondiali e le “riscosse sociali” , che ci vogliono rigore, onestà e sacrifici per non diventare quello che in dialetto bosino si chiama “strafalari”, che sta per “strapenato” , non per mancanza di soldi ma per la poca credibilità con cui ci si conquista un posto nel mondo.
Una lezione che mercoledì 20 gennaio le suore Capuccine di Madre Rubatto hanno impartito con il cuore nella casa di riposo Maria Immacolata di via Paisiello, in occasione della festa per i “Cent’anni e più...” compiuti, nel 2015, da sei ospiti della Rsa accreditata.
Segno che là, sul colle di Biumo, tira un’aria buona, ma soprattutto che gli anziani pazienti, una novantina in tutto, sono trattati con amore da chi porta il velo, ma anche dalle animatrici. Così le storie di queste sei donne, la “decana” Teresa Alzati che di primavere alle spalle ne ha 105, e poi Igina Munerato di anni 104, Rita Stevenazzi che a gennaio ha compiuto i 103, Luisa Cozzi, Vanda Zecchetti e Teresa Dell’Oca con il loro secolo tondo tondo, sono state raccontate con una proiezione che, commenta la madre superiora, suor Silvia, «sono un tributo dovuto a questo traguardo eccezionale, ma soprattutto dovrebbero essere mostrate alle nuove generazioni, perché conoscano che cosa è davvero la vita». Luisa è riservata, come lo è sempre stata nella sua esistenza che l’ha voluta orfana di guerra, e Vanda, che il padre se l’è portato via la “spagnola” in un ospedale militare poco prima dell’armistizio, cresciuta in un casello ferroviario e già emigrante a 14 anni, dalle «vicissitudini della sua vita ha sempre ricavato la voglia di ricominciare, ogni volta più forte», come ricorda la figlia Gabriella, che nella sua mente e nel suo spirito ormai lontani vede solo «un altro cammino».
Teresa Dell’Oca, sposata Pigionatti, si racconta nelle parole del figlio Giancarlo, già caporedattore dello sport della Prealpina, e ancora insegna «il senso dell’altruismo e della velocità del passo secondo la gamba che ha animato le nuove generazioni». Angiolina Margherita Stevenazzi, per tutti Rita, ha visto tornare il marito dalla campagna di Russia “piegato” nel corpo e nello spirito, e forse proprio per questo suo figlio, “l’alpino” Giorgio, non smette di guardarla con riconoscenza per i suoi sacrifici. Igina ha trascorso la giovinezza in un collegio, dopo che anche a lei la “spagnola” portò via la mamma nel 1918, ma, sposata con Bianchin, ha saputo crescere i suoi tre tesori con il sorriso, al suono della musica di Claudio Villa e Julio Jglesias. E infine Teresa Alzati, classe 1910, due guerre mondiali alle spalle, passate tra la paura delle bombe e le preoccupazioni per i figli da crescere, che si alza in piedi sulle sue gambe e ancora insegna: «La vita è bella e la voglio godere».