«Aveva due possibilità. La prima: confessare. La seconda: avvalersi della facoltà di non rispondere. Ha scelto quest’ultima strada, d’altronde è nelle sue facoltà. La legge glielo consente».
Parla il sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, il giorno dopo l’interrogatorio di garanzia risoltosi in un nulla di fatto, complice la scelta del silenzio adottata da Stefano Binda, in carcere da venerdì scorso con l’accusa di avere violentato e ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi la sera del 5 gennaio di 29 anni fa nella radura di Sass Pinì. Poi, l’appello a sorpresa, approfittando del via vai di cronisti che per tutta la mattinata di mercoledì sono andati in processione nel suo ufficio al terzo piano di Palazzo di Giustizia, per carpirle qualche dettaglio in più su quello che, non solo a Varese, è ridiventato il caso del momento. A sorpresa Manfredda lancia un appello all’indagato: «Spero dal profondo del cuore che ascolti l’accorata richiesta dei familiari di Lidia Macchi (nei giorni scorsi Paola, la mamma della vittima, lo hanno invitato a confessare così da evitare lo strazio della riesumazione del cadavere, ndr) e ascolti l’anelito di liberazione della sua coscienza».
Il magistrato sembra avere scelto tutt’altro a caso termini come «liberazione» e «coscienza».
Obiettivo dichiarato: scuotere il presunto autore del delitto da quell’apparente sensazione di dissociazione con la quale pare essersi approcciato alle gravissime accuse che in realtà lo riguardano molto da vicino. Di più: si vuole trovare un varco per penetrare attraverso quella corazza costruita in tutti questi anni di silenzio e riportare così a galla quel grande travaglio interiore che potrebbe averlo spinto a inviare la lettera In morte di un’amica ai genitori di Lidia (secondo la consulente Susanna Contessini, autrice della perizia, la grafia di Binda è equivalente alle sue impronte digitali) e a conservare gelosamente per tutti questi anni quel foglietto su cui ha scritto «Stefano è un barbaro assassino».
Capitolo Dna. Il sostituto pg milanese Manfredda ha confermato che gli agenti della polizia scientifica hanno prelevato in carcere a Varese un campione genetico di Binda attraverso un tampone salivare. Più d’uno si era domandato perché procedere a questo secondo prelievo. A ben vedere, la ragione è molto semplice: il Dna raccolto in un primo momento, quello cioè che è servito per escludere che sia di Binda il profilo genetico maschile rimasto impresso sulla linguetta della busta contenente la lettera anonima recapitata alla famiglia Macchi il giorno del funerale e che gli addetti ai lavori sono soliti chiamare Dna investigativo, è stato ricavato da un mozzicone di sigaretta raccolto durante le perquisizioni nell’abitazione dell’indagato a Brebbia. Il prelievo effettuato ai Miogni, col tampone salivare, è a prova di bomba ed esclude ogni possibile contaminazione. Naturalmente, il Dna sarà ripassato in rassegna dai due consulenti di fiducia della Procura Generale di Milano, il professor Carlo Previderè, biologo in forza al Dipartimento di Medicina legale e scienze forensi dell’Università di Pavia, e il responsabile del Gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano, il biologo Roberto Giuffrida. Comunque sia, il Dna di Binda tornerà utile nel caso di riesumazione della salma della studentessa di Casbeno, un’opzione resa esplicita dai genitori e dai fratelli di Lidia con una richiesta formalizzata dall’avvocato Daniele Pizzi nell’autunno scorso. Un’ipotesi che, per stessa ammissione del magistrato inquirente, «diventerebbe ineluttabile, qualora Binda non confessasse l’omicidio».
«Farò di tutto per evitare che si debba riesumare il corpo di Lidia, me lo riservo come ultima spiaggia. Tuttavia, se esiste un’ipotesi infinitesimale di risultato, ovviamente non posso precludermelo», ha confidato Carmen Manfredda.