«Chiediamo la condanna di tutti gli imputati per tutti i capi d’imputazione» e che l’arresto illegale sia considerato «un sequestro di persona». Inoltre, «se la Corte d’Assise dovesse stabilire che l’accusa di omicidio preterintenzionale deve diventare quella di morte in conseguenza di un altro reato, il sequestro di persona appunto, imputazione che oggi è prescritta, chiediamo che nelle motivazioni della sentenza si valuti la colpevolezza o l’innocenza degli imputati prima della dichiarazione di prescrizione».
Ultimo giorno, venerdì 5 febbraio nell’aula bunker del tribunale di Varese, delle arringhe dei difensori di parte civile nel processo a due carabinieri e sei poliziotti per la morte di Giuseppe Uva, il quarantatreenne deceduto nel giugno del 2008 in ospedale dopo un passaggio nella caserma dei carabinieri per un atto vandalico. E le parole riportate sono state quelle dell’avvocato Fabio Ambrosetti, legale della famiglia Uva con i colleghi Alberto Zanzi e Fabio Matera, al momento delle richieste finali.
I tre avvocati sono stati impegnati nella loro parte di discussione per due lunghissime udienze. E alla fine sono arrivate anche le richieste di risarcimento. Simbolico, come annunciato, quello a cui aspira la sorella di Giuseppe, Lucia: un euro per ogni capo d’imputazione, per un totale di quattro. Meno simbolico quello preteso dagli altri parenti: nessuna cifra, ma la richiesta che il risarcimento dei danni subiti sia quantificato in un separato giudizio civile in caso di condanna.
Volendo sintetizzare le tesi delle parti civili, in quella notte di giugno del 2008 i carabinieri non avrebbero mai dovuto portare Giuseppe Uva ubriaco in caserma dopo che aveva commesso un reato “bagatellare” come il disturbo del riposo delle persone (e per questo sarebbe stato commesso un sequestro di persona, senza che i poliziotti intervenissero per liberare Uva): «Alcuni imputati hanno parlato di una “prassi da Trapani a Pordenone” - ha detto l’avvocato Matera rivolto alla Corte presieduta da Vito Piglionica -, ma si tratta di una prassi che non ha fondamento nella legge e per questo la vostra sentenza dovrà stigmatizzarla». Quindi il corpo di Uva, già in strada e poi in caserma, sarebbe stato sottoposto a una «manomissione» - perché costretto a terra o su una sedia, ammanettato e vittima almeno due volte di lesioni eteroprodotte, in via Saffi e nel pronto soccorso del Circolo - che soddisferebbe la condizione posta dal codice penale perché si possa parlare di omicidio preterintenzionale, ovvero una violenza che porta la vittima alla morte anche se non era questo l’obiettivo di chi ha agito.
«Carabinieri e poliziotti dovevano prevedere effetti nocivi per il cuore di Uva - ha detto
l’avvocato Ambrosetti - in conseguenza dei loro comportamenti. Non importa che non sapessero nulla, naturalmente, del prolasso della mitrale di cui soffriva Giuseppe. Potevano comunque prevedere che lo stress provocato dal sequestro provocasse un infarto».
Il movente?
«A questo punto non ci serve - ha detto ancora Ambrosetti -: non importa sapere perché l’intervento si trasformò in una spedizione punitiva: quando in un processo abbiamo le prove, abbiamo la pistola fumante, abbiamo le impronte digitali dell’assassino, possiamo anche fare a meno di sapere qual era il movente».
Infine una spiegazione inedita per quanto riguarda la macchia di sangue sui jeans di Uva: «Quando Uva uscì con Biggiogero era pulito, ci dice il padre di Alberto. E i periti ci dicono che il sangue uscì dall’ano per la rottura di un’emorroide. Una rottura spontanea? Nessuno può dirlo con certezza, ma per me l’ipotesi più probabile è che quella rottura sia stata provocata da un calcione, dalla punta di uno scarpone».
Prossima udienza il 12 febbraio, quando inizieranno le arringhe degli avvocati difensori.