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Supertestimoni blindati a Palazzo

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Supertestimoni blindati a Palazzo

Da una parte gli interrogatori “anticipati” dei sei testimoni chiave dell’indagine sull’omicidio di Lidia Macchi: a porte chiuse davanti al gip Anna Giorgetti e con l’obiettivo (raggiunto) di evitare a quei tre uomini e a quelle tre donne ogni possibile contatto con i giornalisti dentro il tribunale e nelle immediate vicinanze. E dall’altra il sequestro di un intero parco cittadino, quello ai piedi del Castello di Masnago, con l’intervento addirittura dell’Esercito, i cui genieri sono stati incaricati di rintracciare il coltello che sarebbe stato usato da Stefano Binda, in carcere dallo scorso 15 gennaio, per uccidere Lidia Macchi il 5 gennaio del 1987. Primo fronte, il cosiddetto “incidente probatorio”, durato dalle dieci del mattino fino a tarda notte.

A questo proposito il massimo riserbo imposto dalla forma di questi interrogatori, che varranno come prova in un futuro processo ma che al momento non sono pubblici, è stato “bucato” da una considerazione generale: tutti i supertestimoni avrebbero sostanzialmente confermato quanto già dichiarato agli uomini della Squadra Mobile della Questura di Varese, il cui lavoro sul “cold case” per eccellenza della storia criminale varesina è stato coordinato dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda.

Mentre sul fronte della ricerca dell’arma del delitto dentro il parco Mantegazza di Masnago, il primo giorno non ha portato risultati, ma anche questo può risultare un dato scontato, visto che la Procura generale di Milano ha disposto il sequestro del giardino, Castello con museo escluso, fino a venerdì 26 febbraio, e ha quindi previsto che le operazioni di “tracciamento” delle aree di ricerca e di ricerca vera e propria, con metal detector e picconi, saranno lunghe e complesse.

Quello del sequestro del parco Mantegazza è stato comunque il vero colpo di scena della giornata. Lo stesso sostituto pg Manfredda, per tutta la giornata nel Tribunale di Varese per condurre gli interrogatori dei sei supertestimoni, ha riconosciuto che si tratta di un tentativo che, «ventinove anni dopo...», non dà alcuna garanzia di successo. Ma lo stesso magistrato che ha chiesto e ottenuto dal gip Giorgetti l’arresto di Binda come presunto assassino, ha precisato che in una vicenda come questa «non vogliamo lasciare nulla di intentato».

Ma perché l’attenzione degli inquirenti si è concentrata sul parco diventato proprietà del Comune nel 1982? È presto detto: Patrizia Bianchi, l’amica di Binda che l’anno scorso ha ridato vigore all’indagine attribuendo all’ex amico la calligrafia dello scritto anonimo “In morte di un’amica”, arrivato per posta ai Macchi il giorno del funerale di Lidia, ha raccontato anche un altro episodio, ritenuto molto significativo dalla Procura generale ma non altrettanto dal gip, che non l’ha inserito nella sua ordinanza di custodia. Qualche giorno dopo il delitto Stefano Binda avrebbe caricato in macchina Patrizia Bianchi per andare con lei dai Macchi e le avrebbe raccomandato di non toccare un sacchetto del pane posato davanti al sedile del passeggero. I due non sarebbero poi andati dalla famiglia di Lidia e Stefano avrebbe fermato l’auto appunto davanti al parco Mantegazza, sarebbe entrato con il sacchetto, si sarebbero trattenuto all’interno qualche minuto e poi sarebbe tornato alla macchina e dall’amica senza il sacchetto. Nel sacchetto c’era il coltello usato per l’omicidio? E dove l’ha lasciato Stefano Binda? Alla prima domanda non c’è risposta: è un’ipotesi che nasce da una sensazione di Patrizia, e per quanto Binda si sia comportato spesso in modo bizzarro nella sua vita, non si capisce perché avrebbe scelto di liberarsi in quel modo del coltello. Quanto all’ipotesi che ancora oggi il coltello, o qualche altro contenuto significativo del sacchetto, possano essere sepolti nel giardino o nascosti nel giardino, è chiaro che solo l’idea di non voler lasciare nulla di «intentato» può giustificare oggi una ricerca a tappeto.

Passando poi all’incidente probatorio, al quale Binda ha partecipato e al quale ha assistito anche la mamma della ragazza, Paola, accanto al legale della famiglia, l’avvocato Daniele Pizzi, sono stati interrogati dal gip Giorgetti, dal pm e dai difensori dell’indagato, gli avvocati Sergio Martelli e Roberto Pasella, Patrizia Bianchi (tre ore al mattino), Emanuele Flaccadori, che ha di nuovo negato la presenza di Binda a Pragelato per una vacanza di GS nei primi sei giorni del gennaio 1987, la sorella di Lidia, Stefania, don Fabio Baroncini, guida spirituale di CL all’epoca, don Giuseppe Sotgiu, all’epoca amico del cuore di Binda, e Paola Bonari, l’amica che Lidia andò a trovare la sera del 5 gennaio 1987 nell’ospedale di Cittiglio. Tutti sono entrati in Tribunale da ingressi secondari, tutti sono entrati direttamente in aula grazie a un ascensore che di solito viene usato solo da giudici e cancellieri. Tutti sostanzialmente “fantasmi” per giornalisti, fotografi e cameraman appostati ovunque.

«Mi auguro che emerga la verità», si è limitata a dire la mamma di Lidia in una pausa dell’udienza fiume. Mentre l’avvocato Pizzi ha parlato dell’incidente probatorio come di un passaggio «importante», che ha portato «conferme alle ipotesi accusatorie della Procura generale di Milano».


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