«Nessuna volontà polemica. Ma alcune doverose precisazioni. Perché ci sono frasi riportate dalla stampa dopo l’incidente probatorio del caso Macchi che possono creare pressione mediatica sulla vicenda giudiziaria, a partire da una distorsione dei fatti. Non vorremmo ritrovare queste interpretazioni sbagliate negli atti e doverci difendere anche da questa pressione mediatica».
Gli avvocati Sergio Martelli e Roberto Pasella, difensori di Stefano Binda, il quarantottenne in carcere dallo scorso 15 gennaio perché accusato di aver ucciso a coltellate Lidia Macchi il 5 gennaio 1987, intervengono per spiegare che il loro assistito non è il «cinico, freddo calcolatore» che sta quasi quindici ore nella stessa aula di tribunale con la mamma di Lidia, Paola, «senza rivolgerle nemmeno uno sguardo»: un’immagine dell’uomo che il lettore potrebbe ricreare nella sua mente a partire dalle dichiarazioni della stessa mamma.
«Quella dell’incidente probatorio è stata un’udienza blindatissima per decisione del gip Anna Giorgetti- spiegano i difensori - e a Binda era stato ordinato di non avere contatti visivi o verbali con i testimoni o con altre persone in aula, e di non fare movimenti bruschi o eccessivi: non è stato il cattivo impassibile a cui potrebbero far pensare certi titoli, ma una persona che ha deciso di comportarsi in modo molto formale e attento, con il massimo rispetto per la situazione. E diciamo questo, lo ripetiamo, perché è la verità. Lungi da noi la volontà di polemizzare con la mamma di Lidia, che ha vissuto un’esperienza terribile e ha tutto il diritto di interpretare questa esperienza come le viene naturale».
Servizio completo sulla Prealpina digiovedì 18 febbraio.