«Lì dentro c’era l’inferno. Un misto di fango e sangue, cassoni con viscere, budella e pelli di animali. Ovini decapitati appesi per le zampe. Decisi che lì non avrei fatto macellare il mio agnello, perché per noi è un rito sacro e pulito»: al processo per il macello degli orrori di Sant’Anna scoperto il 15 ottobre del 2013, hanno parlato due marocchini che a Michelina Greco si erano rivolti per prepararsi alla festa del Sacrificio.
Uno ha descritto con dettagli orripilanti il degrado e lo strazio di quel capanno alle spalle di Malpensafiere, l’altro invece ha spiegato il meccanismo con cui gli islamici potevano approvvigionarsi degli animali da immolare sull’altare di Allah.
Secondo il testimone comparso davanti al giudice Rossella Ferrazzi, i musulmani si recavano dalla Greco per scegliere la bestiola, la settantottenne pesava l’ovino, lo marchiava, si faceva dare un anticipo e lo teneva da parte per il giorno del rito. Quando era il momento, il cliente andava a ritirare l’agnellino e poi lo portava in un cascinale davanti all’azienda agricola della donna, metà del quale era di proprietà di un albanese. Lì il maghrebino aveva due scelte: farlo macellare oppure macellarlo lui stesso, previa preghiera di purificazione prevista. Il tutto senza la minima precauzione igienica, senza alcuna pietà per le vittime sacrificali, con crudeltà inaudita. Il dibattimento servirà per individuare le singole responsabilità dei sette imputati a giudizio. Oltre a Michelina Greco - che è difesa dall’avvocato Walter Picco Bellazzi - alla sbarra ci sono il figlio Giovanni Artifoni (difeso anch’egli da Bellazzi), Nelu Matei (avvocato Stefania Gagni), Abderrahim Jabri (avvocato Dario Ferré), Ermir Daiu (avvocato Maria Cristina Marrapodi), Costantin Catrinoiu (avvocato Santa Scoccimarro) e Maria Simona Matei (avvocato Gagni). Il capo di imputazione è durissimo, parla di animali sottoposti a «sevizie e a comportamenti e fatiche insopportabili». I poveri cuccioli di pecora venivano in altre parole sgozzati e dissanguati appendendoli con lacci legati alle zampe posteriori ai balconi della struttura o ai rami delle piante, oppure venivano legati a terra per le quattro zampe, ed erano abbandonati all’agonia più atroce insieme ai resti di altre bestie morte, circondati da sangue, viscere, escrementi.
Senza il preventivo stordimento previsto dalla legge, senza alcuna precauzione per evitare loro dolore e sofferenza. Una barbarie, documentata dalle fotografie che sono agli atti.