Anni di vessazioni, insulti, soprusi. Perché quando si è nel primo periodo dell’adolescenza è tremendamente facile prendersela con chi è più debole, così come sconfinare nella crudeltà gratuita. Ma poi si arriva alla violenza fisica e allora nessuna giustificazione, nessun “tanto sono ragazzi” può spiegare nulla e lenire ferite ben più profonde di quelle fisiche.
Roberta (nome di fantasia) ha 13 anni, frequenta la terza media e ha l’incubo di doverci tornare a metà della prossima settimana, quando scadranno i dieci giorni di prognosi che il referto del Pronto soccorso le ha garantito per “inversione della fisiologica lordosi cervicale” da trattare con tanto di collarino terapeutico. Cos’è successo? Lo racconta la mamma, testimone della scena: «La stavo aspettando all’uscita. Appena fuori dal cancello si è fermata un attimo per riporre la giacca e una compagna l’ha sollevata per il collo, urlandole in uno spagnolo di facile comprensione che l’avrebbe ammazzata». Alla vista della madre, la ragazza ha provato a fuggire, salvo poi essere raggiunta e aver tentato ogni sorta di giustificazione: «In quel momento stava passando il pullman. E se l’avesse sbattuta in strada, facendola investire?» si chiede la mamma.
Alle spalle, appunto, una storia molta lunga e triste, che affonda le radici nella scuola elementare. Stando al racconto della madre, «viene presa di mira quotidianamente», il più delle volte con insulti pesantissimi, auguri di una morte dolorosa e inviti al suicidio che la signora, una volta letti su WhatsApp, ha trascritto per avere in mano le prove concrete delle vessazioni. E c’è un inquietante biglietto, che fa ancora più male di tutti gli altri aspetti della vicenda, in cui Roberta dichiara di volerla fare finita. La mamma e la nonna non la lasciano sola nemmeno per un secondo, una psicologa cerca di fare il resto: «Ma cosa succederà al rientro a scuola?», si chiedono con angoscia.